Caduto un demagogo…

Quest’articolo risale al 12 novembre 2011, proprio ai giorni in cui Berlusconi veniva costretto dagli eventi a lasciare palazzo Chigi. Il titolo era: Ed ora che succederà? L’autore infatti si faceva interprete dell’interrogativo che allora si ponevano un po’ tutti di fronte ad un evento che si presentava come storico, sia per quel che il berlusconismo aveva a lungo rappresentato, sia per l’incognita costituita dagli eventi futuri. Non ultimi, gli analisti stranieri si chiedevano sull’Italia se sarebbe ricaduta nelle mani di un nuovo leader populista che possibilmente l’avrebbe condotta fuori dall’euro se non persino dalla stessa Europa. Ogni popolo è inevitabilmente legato alle vicende del suo passato che ne creano il carattere e in qualche modo ne condizionano le scelte future. Questa è la ragione per cui i popoli hanno difficoltà ad apprendere le lezioni della Storia e tendono facilmente a ricadere negli stessi errori. L’autore parte da questo presupposto, ma anche s’interroga su quei meccanismi della mente che spingono certe persone a correre per il potere ed altre a lasciarglielo conquistare secondo una logica non necessariamente razionale. Tutto questo tenendo conto della vicenda italiana e della stupefacente avventura berlusconiana. Proprio per il taglio dato alla riflessione, l’articolo non perde nulla della sua attualità anche se riproposto a mesi di distanza.

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Come tutte le vicende degli uomini, anche un regime apparentemente irriducibile è destinato a finire. Il berlusconismo è stato un fenomeno molto più complesso e serio di quel che in apparenza possa sembrare, ben più degli attori che lo hanno rappresentato, a cominciare dal suo leader. Per coglierne tutti gli aspetti, le cause e le implicazioni saranno necessari gli strumenti e la distanza propri dell’analisi storiografica.

Tuttavia non è possibile chiedersi cosa succederà a questo punto se prima non si tenta di capire cosa sia successo finora; in che senso il berlusconismo sia stato un fenomeno più complesso e serio degli attori che lo hanno rappresentato. Qualche risposta dobbiamo tentare di darcela già da adesso.

Capita spesso vedere associato il periodo di governo berlusconiano con il ventennio fascista, sebbene altri trovino fuori luogo tale associazione, se non altro perché il berlusconismo si è svolto all’interno di una cornice democratica e senza interruzione delle garanzie costituzionali. Almeno nella forma. Il che però implica che nella sostanza degli squilibri possano essersi verificati. Infatti chi insiste in quest’associazione fa notare che i meccanismi del consenso posti in essere dal berlusconismo sono gli stessi utilizzati dai regimi dittatoriali che fanno leva sull’appoggio delle masse per svuotare, inizialmente nella sostanza, i poteri democratici di controllo vissuti in chiave persecutoria per poi, infine, sospenderli o abolirli del tutto. Il sistema di potere berlusconiano ne possedeva essenzialmente i tratti di carattere e si muoveva in quella logica. Basti pensare al controllo spregiudicato dei mezzi d’informazione, alle leggi bavaglio in cantiere o alle cosiddette leggi ammazzasentenze concepite per porre ostacoli a un organo indipendente di garanzia non ancora normalizzato.

È proprio in questa complicità tra il popolo e il leader populista, ovvero tra un attore collettivo e un attore individuale, che conviene soffermarci per tentare un’analisi di questo fenomeno che ci ha accompagnato per oltre tre lustri. Concentriamo per il momento la nostra attenzione sull’attore individuale. Lo studio dei regimi totalitari insegna che il clima di complicità s’innesca quando l’aspirante “uomo della provvidenza” possiede la capacità d’intercettare l’umore delle masse e di piegarlo ai propri fini. Non è indispensabile che possieda un’intelligenza fuori dalla norma; anche se questo, ovviamente, può aiutare. Non è neppure necessario che sia mentalmente equilibrato; anzi, come vedremo, è proprio la mancanza d’equilibrio che lo spinge meglio ad avventurarsi nell’impresa. Però è importante che possieda, oltre a una naturale tendenza al fascino, un buon mix di perspicacia e di spregiudicatezza. Un “furbo”, insomma. È illuminante quel che il dissidente tedesco Otto Strasser, contemporaneo di Adolf Hitler, racconta della relazione che il dittatore sapeva instaurare con le masse. Egli colse perfettamente quest’aspetto, pienamente padroneggiato da quel dittatore, e ne diede la seguente testimonianza: “Le sue parole colpiscono l’obiettivo come una freccia; egli mette il dito sulla piaga di ognuno, libera il suo inconscio, mette a nudo le sue più riposte aspirazioni, dice quello che ognuno più desidera ascoltare”. Hitler poté condurre il suo folle disegno fino alle estreme conseguenze solo perché fu capace di sedurre il suo popolo, ottenendone l’incondizionato sostegno. Egli seppe cavalcarne i pregiudizi, le paure e le aspirazioni. Seppe convincere la sua gente che lui solo avrebbe potuto realizzare i suoi più profondi desideri. Questa capacità di seduzione è indispensabile al leader nella misura in cui egli si fa despota. Lo statista onesto governa i suoi concittadini con altruismo e spirito disinteressato. Le sue azioni sono volte al bene comune e non all’ottenimento del consenso fine a se stesso, così come agirebbe un buon padre di famiglia. Il leader populista, invece, usa il potere principalmente per gratificare se stesso e il consenso delle masse gli è strumentale per il raggiungimento dei propri obiettivi. Il consenso va quindi cercato e conservato ad ogni costo e con ogni mezzo. Quando non può far leva sui più alti principi etici (che peraltro non possiede), non disdegna d’assecondare i pregiudizi, le paure e le aspirazioni più discutibili così come emergono dal sentire comune che in qualche modo è anche il suo.

Ma perché alcuni si danno il rischioso e faticosissimo obiettivo d’impadronirsi del potere, sfidando chi il potere già ce l’ha o concorre a conquistarlo? Non certo in nome dei grandi ideali… o, almeno, quasi mai. Come infatti constata lo storico Paolo Deotto, “chi realmente persegue i Grandi Ideali, se questi sono realmente Grandi, in genere non aspira al Potere, non raggiunge quelle posizioni di dominio che permettono di incidere sulla vita degli uomini e sulla politica. Nulla vogliamo togliere alla forza morale degli Ideali e di chi onestamente vive per essi; ma la forza morale è determinante solo sull’onda lunga dei decenni, se non dei secoli, e con modalità che non sono mai quelle della violenza che tanto caratterizza la storia umana”. Perché è indubbio che la storia umana sia caratterizzata da un susseguirsi di azioni violente, com’è altrettanto evidente la mancanza di scrupoli dei potenti di turno che le hanno determinate. Talmente evidente che è inevitabile chiedersi la ragione per cui siano di norma i peggiori esponenti del genere umano a detenere il potere. Forse perché “il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente”, per riferirsi alla celebre affermazione del Montesquieu? O perché nel millenario conflitto tra il bene e il male, il Principe di questo mondo sa ben scegliersi i suoi? Entrambe le osservazioni sono legittime, ma sembra che entri in gioco anche un’altro fattore nel determinare questa selezione negativa che non esclude le precedenti.

In seguito agli scandali finanziari che hanno segnato gli ultimi anni dello scorso secolo anche la psicologia e la psichiatria si sono interessate al fenomeno ed hanno prodotto una serie di studi e di ricerche sull’argomento. Ricercatori statunitensi ed europei, specialisti soprattutto in quel disturbo psicopatologico contestualizzato che prende il nome di psicopatia aziendale (corporate psychopathy), hanno posto sotto osservazione la struttura organizzativa delle grandi società finanziarie alla ricerca di anomalie che spiegassero il fenomeno. Da queste indagini sono emersi due elementi tra loro consequenziali. Innanzi tutto che i manager apicali responsabili di disastri non erano autori di errori occasionali, semplicemente deviati da una cultura prevalente e suscettibili di pentimento per i loro comportamenti riprovevoli. Al contrario essi erano soggetti portatori di perversioni morali permanenti che, se non smascherati, avrebbero proseguito imperterriti nel loro comportamento criminoso perché privi di sensi di colpa. Il secondo elemento connesso al precedente è la constatazione che in tutta la catena di comando, dai semplici quadri ai posti apicali, sono presenti in elevata percentuale individui portatori di perversioni morali permanenti. E d’altra parte come stupirsi di ciò se l’etica sociale spinge verso un modello di vita volto a far soldi, fama e carriera? Un modello “vincente” in senso darviniano, ovvero rapace a spese degli altri che nella competizione sociale saranno i “perdenti”. Ciò a cui non s’è posta attenzione è che in questo modello sempre più competitivo, a causa anche della rivoluzione informatica e della globalizzazione dei mercati, le persone dotate di fedeltà, cautele e scrupoli sono state scalzate dai tipi intuitivi, cinici e opportunisti. Ovvero da tipi non semplicemente “cattivi” in senso generico ma ben inquadrabili nella clinica psichiatrica e in criminologia come psicopatici. Infatti i molti studi finora condotti hanno trovato una serie di punti di contatto tra la personalità del manager brillante e quella dello “psicopatico di successo” quali: mancanza di scrupoli, di responsabilità, di sensi di colpa, incapacità all’empatia, tendenza alla menzogna e alla manipolazione, cinismo, ed altre gradevolezze. Perché “psicopatici di successo”? Perché il loro handicap, che è l’incapacità di provare quei sentimenti che ci rendono umani quali l’empatia, la pietà, l’istinto di protezione dei più deboli, la solidarietà, all’interno della nostra società fortemente competitiva diviene per loro un grande vantaggio. Essi infatti si ritrovano perfettamente equipaggiati per scalare quei gradini della gerarchia sociale che è strutturata proprio per favorire l’ascesa di chi è privo di scrupoli. Già un uomo di principi tende ad evitare posizioni di potere perché il potere corrompe l’anima e mette a dura prova i principi. Comunque anche un uomo di potere mediamente onesto e abituato ai compromessi, di fronte a patti con la propria coscienza, tradimenti e corruzioni, si fermerebbe. Lo psicopatico non ha questo problema perché, per definizione, non è governato da principi morali interni. Al contempo egli è fortemente attratto dalle posizioni di potere, ad un punto tale che nessun rischio e nessun prezzo saranno mai tanto elevati da distoglierlo dagli sforzi per conseguirlo. Sebbene egli non sappia sentire emotivamente i sentimenti e gli scrupoli delle persone utili al raggiungimento dei suoi obiettivi, impara a conoscerli intellettivamente. Egli studia gli uomini, che per lui rimangono dei meri strumenti, capta i loro pensieri, impara a decifrare il linguaggio del corpo e manipola le loro emozioni. Da consumato attore si rappresenta come un leader fascinoso e ideale, che racconta ciò che essi vogliono ascoltare e promette ciò che essi più desiderano, siano esse cose cattive, facendo leva sulle loro paure e sui loro pregiudizi, siano esse cose moralmente elevate; e con voce rotta da finta emozione o tuonante di santa indignazione, pronuncia parole di onestà, di giustizia e di rettitudine. Parla di valori. Il tutto per sedurre superiori e sottoposti al fine di conseguire i suoi personali obiettivi.

La scoperta che esistano gli “psicopatici di successo” è in sé inquietante perché a questa patologia siamo avvezzi ad associare l’immagine nota degli “psicopatici senza successo”, cioè di quegli individui che oltre all’incapacità di immedesimazione, di provare emozioni, senso di colpa, e ancora: cinici, bugiardi, manipolatori, manifestano comportamenti apertamente devianti; sono instabili e incapaci di controllare la propria aggressività, e finiscono per costituire in buona parte la popolazione carceraria dei criminali tradizionali. Eppure, a ben pensarci queste seconde caratteristiche, anche se più immediate e appariscenti, sono solo una complicanza che sebbene aggravi il quadro complessivo della psicopatia, in realtà lo semplifica, perché lo rende subito evidente e consente alla società di difendersi isolando i devianti. Ben più grave per il corpo sociale è la presenza degli “psicopatici di successo” perché la loro immoralità è molto ben camuffata e la loro aggressività assume forme più mediate e raffinate. E proprio perché hanno successo il danno che provocano alla collettività è incalcolabile. Anche perché essi non si limitano a scalare i vertici del mondo finanziario, o commerciale o industriale.

S’è visto che sono le fasi di rapido cambiamento che, rendendo inadeguate regole e consuetudini, esasperano la competizione e favoriscono l’emergere di personalità psicopatiche. Nei periodi di crisi si cercano soluzioni miracolistiche e nessuno meglio dello “psicopatico di successo” sa proporsi come l’uomo dei miracoli. Lo si è visto e lo si vede tutt’ora nel mondo dell’imprenditoria e qualcuno ha fatto notare che dinamiche analoghe si sono verificate in occasione di grandi rivolgimenti politici. S’è osservato con l’avvento dei fascismi, con le rivoluzioni comuniste e più di recente con il ritorno dei nazionalismi, ad esempio con la disgregazione della Iugoslavia. Queste fasi tumultuose della storia hanno offerto le condizioni ideali per l’emergere di leader psicopatici mentre poco spazio hanno trovato le personalità equilibrate.

Qualcosa di analogo è successo da noi quando l’avvento di mani pulite ha rivelato la corruzione della classe politica. Nel vuoto di potere venutosi a creare per le inchieste giudiziarie e la costernazione dell’opinione pubblica, con incredibile faccia tosta si fece avanti un imprenditore profondamente coinvolto nei vecchi giochi corruttivi tra la politica e il mondo degli affari, e che ciò nonostante si presentò come il volto nuovo che avrebbe salvato l’Italia. Si dirà: l’ha fatto per salvare “la roba”, cioè la sue imprese; per non finire in galera o a dormire sotto i ponti, come ha ammesso il suo fido Confalonieri. Che c’è di strano se un imprenditore dimostra intraprendenza? In realtà lo stesso Confalonieri e Letta lo scoraggiarono dall’entrare in politica (“È una pazzia. Ti distruggeranno!”). Ma Berlusconi non si lasciò scoraggiare. Già solo questo dovrebbe metterci in allarme: l’assunzione di rischi esagerati non è esclusivo ma è un tipico atteggiamento psicopatico. Come lo è il non sentirsi mai domo. Come lo è il mentire spudoratamente, negando l’evidenza e promettendo tutto e il contrario di tutto a tutti. Come lo è il manipolare gli altri al fine di conseguire il proprio esclusivo vantaggio, magari dal privatissimo palazzo Grazioli ancor più che da palazzo Chigi. Come lo è l’attività forsennata e un’intraprendenza compulsiva, di cui il bunga-bunga è solo un aspetto ma duplicemente significativo perché pure connesso ad una sessualità promiscua e mercenaria, anch’essa tipica nel contesto psicopatico. Come lo è l’elemento paranoide in questa struttura caratteriale, alla ricerca di nemici sovrastimati (“i comunisti”). Come lo è il delirio d’onnipotenza (“il più grande statista egli ultimi 150 anni”). Come lo è l’intolleranza per il dissenso e la narcisistica propensione a circondarsi di adulatori. Lo psicopatico si ritiene al di sopra delle leggi e l’unica autorità che riconosce è la propria. È strutturalmente insofferente alle regole democratiche. Il berlusconismo non può definirsi un regime autoritario, forse perché non c’erano (ancora) le condizioni o forse perché non c’è stato il tempo, ma è comunque riuscito a svilire le istituzioni, beffandole, svuotandole in parte o inibendole. Filippo Ceccarelli lo ha definito “un potere configuratosi al tempo stesso evoluto e arcaico, non solo perché esercitato da un magnate dei media con tecniche avanzatissime, ma come sospeso nel tempo dei regimi pre-democratici, indifferente alle altrui opinioni, prossimo a un astuto e morbido assolutismo”.

Non possiamo dire che Berlusconi sia un puro “psicopatico di successo”. Per affermarlo con certezza è necessario che psichiatri o psicoterapeuti si pronuncino dopo averlo analizzato. Tuttavia abbiamo subìto le sue intemperanze per anni, da anni non si parla d’altro che di lui e delle sue imprese. E allora ne sappiamo abbastanza per avanzare il sospetto che, quantomeno, nel suo carattere la dinamica psicopatica sia l’elemento dominante, no? Comunque, per quanto complessa sia questa figura, affermavamo in apertura che la sua creatura, ovvero il berlusconismo, lo superi per importanza. Abbiamo anche detto che per tentare un’analisi di questo fenomeno dovevamo prendere in considerazione non solo l’attore individuale (il leader populista) ma anche l’attore collettivo (il popolo) che con lui ha stretto un legame di complicità. Ed anche qui le cose da considerare sono significative.

Scrive Stefano Folli su Il Sole 24 ore: “Diciamo la verità. Pochi personaggi politici negli ultimi decenni sono stati così detestati come Berlusconi, ma pochi sono stati così amati. Una vasta opinione pubblica ha fatto affidamento su di lui, lo ha spinto in alto, lo ha difeso spesso in modo acritico. In una parola, è rimasta stregata dalla sua personalità espansiva e dal suo ottimismo. Ha cercato di non vedere il lato oscuro della luna, l’altra faccia della medaglia; e l’incantesimo è durato nel tempo, molto più di quanto siano soliti durare gli incantesimi. Questo spiega la longevità politica di Berlusconi, insieme alla sua eccezionale capacità di organizzare le campagne elettorali e di vincerle anche quando tutto sembrava essere contro di lui. Ci si ricorderà di lui soprattutto come di un grande, incredibile combattente. Mai domo, in grado di rialzarsi sempre ogni volta che era al tappeto. Su questo punto concordano tutti, amici e nemici: un guerriero del genere sarà difficile rivederlo in futuro sui palcoscenici della politica”.

In realtà questa indomita pulsione a rialzarsi sempre ogni volta che si va al tappeto è tipica della personalità psicopatica. Più che all’immagine dell’indomito guerriero andrebbe piuttosto associata a quella del tossicodipendente. Una ricerca condotta da neuroscienziati della Vanderbilt University ha, infatti, identificato una correlazione tra i tratti di questa personalità e il sistema cerebrale della ricompensa. E precisamente una disfunzione nel circuito dopaminergico. In queste persone la pulsione verso la ricompensa, quale sicuramente è per loro il conseguimento e il mantenimento del potere, è così forte da soverchiare il senso del rischio e la preoccupazione per la punizione. Ma la gente queste cose non le sa e scambia questa debolezza per un’ammirevole virtù. Anzi sono tante le cose che non devono sapersi. Il pifferaio di Arcore è riuscito a irretirne tanti nella sua rete. Egli sicuramente ha letto “Psicologia delle folle” di Gustav Le Bon, la bibbia di tutti i dittatori. Sa bene quanto sia importante il controllo dell’informazione. Nei regimi dittatoriali questo controllo è pervasivo e totale, nella nostra democrazia incompiuta egli ha cercato di controllare quanto più è stato possibile, ha anche cercato di far leggi liberticide dell’informazione. Dove non è riuscito a mettere le mani, direttamente o indirettamente con nomine o ricatti, ha lanciato i suoi strali, ha applicato il metodo Boffo. Ha raccomandato agli italiani onesti di non leggere certi giornali, di non guardare certi programmi tv, di limitarsi scrupolosamente alla disinformazione somministrata dai media di regime. Verità ricostruite e addomesticate. Ancor più, illusioni. Perché, come insegnava Le Bon, “nella Storia l’apparenza ha sempre avuto un ruolo più importante della realtà”. L’illusione è più importante e desiderabile della realtà. Le folle seguono poco i ragionamenti e sono colpite soprattutto da ciò che v’è di meraviglioso nelle cose. In fondo ingannarle è facile. In più è d’aiuto il basso livello culturale di molti italiani che si lasciano supinamente formare ai valori propinati da una tv narcotizzata e narcotizzante, che suggerisce un modello d’acquisizione basato sulle apparenze e sugli oggetti: il successo, la bellezza, il denaro, la villa, la Maserati, la barca, le vacanze esotiche. Questo vasto bacino d’aspiranti borghesucci un po’ cialtroni, a maggior ragione si lascia attrarre dall’imbonitore di turno se questo è un modello che ha fatto fortuna. “Chi meglio di me saprebbe dischiudervi la strada per la libertà e il successo?”. Berlusconi ha inaugurato la dittatura dell’intimità. Scrive Ceccarelli: «Nel 1994 Berlusconi si affermò come il messia del dominio spettacolare che da allora ha cominciato a cambiare l’arte di governo in Italia. Fin dal primo comizio, sulla spinta dell’ideologia pubblicitaria e del marketing introdusse il calore delle emozioni a scapito del ragionamento e l’energia della seduzione contro i motivi e i tempi della persuasione; passeggiava su e giù per i palchi, faceva lo spiritoso, strizzava l’occhietto alle signore come da giovane sulle navi. Ricevuto l’incarico, ritornando dal Quirinale raccolse i baci della folla e promise di fare “cose buone”. E a chiunque, sotto le feste, augurava “un mare di coccole”».

L’intimità invita alla relazione personale, privata. Meglio sudditi accolti e benvoluti, con cui creare se utile un clima di complicità, che un freddo e burocratico diritto di cittadinanza. Scrive Carmelo Palma su Libertiamo: “Lo “specifico italiano”, di cui Berlusconi approfitta aderendovi perfettamente, è la sostanziale estraneità culturale di milioni di elettori alle categorie più moderne della politica. Che il rapporto col “sovrano” di molti italiani si giochi sul piano della relazione privata e non su quello della cittadinanza lo ha dimostrato, ben prima di Berlusconi, la deriva partitocratica della democrazia italiana, in cui un’idea “assolutistica” del potere – come arbitrio, non come legge – conviveva con quella “particolaristica” della politica. Che ciò sia avvenuto per ragioni affaristiche o ideologiche (o, più probabilmente, per entrambe) poco importa. Questa tendenza ad identificarsi nella “parte”, nel partito e nel leader, ha in fondo decretato tanto il successo della DC quanto quello del PCI. E prima ancora la fascistizzazione dell’Italia, disposta plebiscitariamente a sposare l’ordine autoritario contro il disordine democratico. Berlusconi è un interprete perfetto di questo carattere politico italiano, e di molti altri, più propriamente psicologici. Per questo a molti appare non solo più persuasivo, ma paradossalmente più affidabile. La sua doppiezza più che spaventare, rassicura. Non pensiamo affatto che la metà degli italiani credano davvero che Berlusconi abbia “aiutato” Ruby, perché era stata ripudiata dalla famiglia dopo la conversione al cattolicesimo. Eppure quasi la metà degli italiani continua a pensare che il Cav. debba rimanere a Palazzo Chigi, preferendo l’autoindulgenza dell’accusato al “moralismo” degli accusatori”.

Questo clima di complicità è dunque costruito intorno ad una relazione accogliente e familiare (la “casa delle libertà”) a difesa dallo Stato dei burocrati e delle gabelle. Il ruolo della famiglia consiste nel dare al bambino la sensazione di essere speciale. Analogamente il leader populista, soprattutto se psicopatico, è pienamente convinto di essere una persona speciale (cioè appartata e superiore), e a sua volta offre ai suoi seguaci, che in realtà disprezza perché egli non sa amare ma solo soggiogare, insieme al suo favore lo status di persone speciali. Questo richiamo nella casa del padre per molti che si sentono smarriti e disperati è irresistibile, offre loro una mitologia e una mistica. Hitler convinse la nazione tedesca d’essere un popolo superiore che avrebbe guidato i destini del mondo. Anche Mussolini cercò d’instillare nella nazione italica il mito della razza superiore e proibì ai suoi soldati in Africa di sposare le donne di colore. Ma anche concesse ai suoi fedeli posizioni, prebende e previdenze. Berlusconi, più prosaicamente, offre ai suoi seguaci il mito del successo. A loro è riservato un trattamento diverso perché sarà loro concesso di tendere verso l’ideale desiderato, se necessario, eludendo le leggi così come fa il loro condottiero. Di tanto in tanto, a mo’ d’indulgenza plenaria, sarà assicurata una sanatoria, un condono, una depenalizzazione, una prescrizione.

Pertanto i gabbati, i creduloni, le vittime del leader populista, trattati come bambini che hanno bisogno di sentirsi speciali per gratificare un’autostima rudimentale e involutiva, si fanno in realtà complici del mariuolo. Quanto meno nel pensiero. Con il loro leader essi vivono in simbiosi, sia pure asimmetrica. Ed ecco perché cercano di non vedere il lato oscuro della luna e l’altra faccia della medaglia. Ecco perché questo incantesimo è durato molto più di quanto siano soliti durare gli incantesimi. Essi non sono solo i topi che seguono il pifferaio, sono anche i vampirizzati del vampiro. L’imprenditore è entrato in politica? Tanti altri imprenditori ne seguono l’esempio. Il 25% dei nuovi ingressi in Parlamento vengono dalle imprese. È la quota più alta di manager dal dopoguerra ad oggi. Cessata l’attività di parlamentari, proseguiranno le loro relazioni con il mondo della politica, e così il Parlamento diviene il luogo dove si coltivano i propri interessi. Per non parlare dei parlamentari che esercitano altre professioni, come gli avvocati e i commercialisti, di cui già sappiamo. Chissà quanti psicopatici di successo tra questi? I recenti rapidi cambiamenti nel mondo economico e politico, e soprattutto con la commistione che si è verificata tra i due, hanno portato a repentine concentrazioni di ricchezza e di… psicopatie. Nei posti chiave della società si è assisa una immoralità senza precedenti. E in una società i cui vertici dimostrano che il successo si raggiunge con l’inganno, la furbizia e la corruzione, è inevitabile che quest’esempio passi come modello normale e desiderabile agli strati più bassi, con la fatale conseguenza che tale circolo vizioso porti alla decadenza dell’attuale civiltà.

Persino oggi, che dopo molti anni dalle promesse l’uomo della “rivoluzione liberale” ha dimostrato chiaramente di non avere le riforme tra le sue priorità sia perché distratto da mille altri interessi e conflitti d’interesse, sia perché forse egli stesso, per temperamento e cultura, è tutto tranne che un liberale, persino oggi l’Italia delle imprese e dei negozi a quest’uomo sentito vicino a cui aveva dato fiducia, dimostrandosi indulgente e concedendogli tutte le attenuanti, persino oggi che s’è vista mal tutelata, s’è ritratta solo in parte, in piccola parte. Rimane tuttora forte uno zoccolo duro di consenso all’uomo di Arcore logorato da una miriade di scandali. Davvero un legame di complicità incomprensibile se non si tiene conto dei molteplici fattori in gioco di cui abbiamo detto e che adesso proviamo a sistematizzare e ad elencare.

Fattori innanzi tutto psicologici. Lo psicoterapeuta Alexander Lowen definisce i gabbati, i creduloni, le vittime del leader populista, i “succhiatori”. Sono persone in cerca di lusinghe e di promesse pronte ad abboccare all’amo del primo contafrottole dai modi seducenti. Il termine “succhiatore” denota una componente orale che riporta ad una fase immatura, ad una mancanza di pienezza. Il credulone ha bisogno di pensare di essere diverso dagli altri, un eletto. Egli accetta il mito che gli viene proposto quasi in termini religiosi. Ed anche quando tutte le evidenze parlano dell’inaffidabilità del suo guru, egli preferisce non vedere queste evidenze perché disinvestire da una fede è molto doloroso e lascia un vuoto desolante.

Fattori ideologici. Spesso alimentati ad arte e amplificati dalla propaganda di regime. Possibilmente generati da una fissazione paranoica del leader populista. Pensiamo nella fattispecie all’avvento dei comunisti che in realtà da anni non esistono più, neppure andandoli a cercare in Cina. In quella Cina dove è consentito spremere gli operai come limoni e dove i capitalisti sono specie protetta e coccolata.

Fattori storici e culturali. Gli italiani, schiacciati sotto il peso della Controriforma e da sempre insofferenti ad un potere civile, vissuto come ostile, gabelliere e difensore dei privilegi, non hanno mai maturato una cultura di cittadinanza tra persone libere ed uguali per diritti e doveri, la consapevolezza di appartenere ad una nazione, di essere tutti ingranaggi di uno Stato. Si son dovuti barcamenare tra furbizie e favori del signorotto locale. L’unica comunità che riconoscono è il gruppo vicinale e l’unico territorio a cui si sentono vincolati è la casa e il campanile. Sono rimasti fondamentalmente dei sudditi e si sentono più sicuri sotto l’ombrello protettivo di un despota che garantisca a tutti un certo livello d’impunità, che li tuteli non “con” ma “dallo” Stato. Hanno a cuore solo il proprio minuscolo orticello. Tutto il resto esula dal loro interesse. Non passa assolutamente l’idea che solo ricercando l’interesse di tutti si può salvaguardare realmente anche il proprio. Berlusconi, re delle trasgressioni e delle furberie, ha solo raccolto il testimone. Prima di lui fecero lo stesso con Mussolini. Scriveva Elsa Morante all’indomani della morte del dittatore: “Durante la sua carriera, Mussolini si macchiò più volte di delitti che, al cospetto di un popolo onesto e libero, gli avrebbe meritato, se non la morte, la vergogna, la condanna e la privazione di ogni autorità di governo (ma un popolo onesto e libero non avrebbe mai posto al governo un Mussolini)… Perché il popolo tollerò, favorì e applaudì questi delitti? Una parte per viltà, una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse o per machiavellismo… Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è cosiffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo tornaconto”. E qui scivoliamo inevitabilmente sulla questione morale.

Fattori morali. Abbiamo affermato che il tipo psicopatico, privo di principi morali interni, ha successo nelle nostre società perché anch’esse propongono modelli moralmente discutibili, quali la rapacità, la competizione darviniana, la ricerca di gratificazioni edonistiche ad ogni costo. Il che significa che la collettività soffre di una condizione morbosa originata da fattori sociali, in altre parole di una sociopatia. Infatti anche gli individui che in un contesto sano potrebbero contare su una mente equilibrata e su un codice morale introiettato, in un contesto confuso e contraddittorio, incoraggiati pena l’esclusione a gettarsi in una competizione senza regole, spesso non solo s’adeguano ai modelli d’acquisizione prevalenti ma divengono incapaci di porre un freno alle loro aspettative e ai loro desideri. Alla condizione di relativa assenza di regole socialmente indotta, per la disintegrazione del sistema di norme e valori, Durkheim in un suo studio del 1897 diede il nome di “anomia”. Il sociologo Robert K. Merton nel 1938 si riferì all’anomia (lett. assenza di norme) per indicare la dissociazione tra i valori finali (le mete che la cultura prevalente propone e per cui vale la pena lottare: ricchezza, successo, prestigio, consumi) e i valori strumentali (i modi legittimi per il raggiungimento delle mete). Nelle società in cui si dà enfasi agli obiettivi da desiderare, senza darne altrettanta ai mezzi legittimi per raggiungerli, finisce per prevalere solo il criterio di efficacia. Il fine che giustifica i mezzi. Ad esempio, la ricerca del profitto attraverso l’uso di pratiche illegali quali la corruzione. L’anomia pertanto è la spia di una società che si corrompe moralmente e si destabilizza.

La proposizione di obiettivi già in sé discutibili e la loro acquisizione con metodi ancor più discutibili non sono modelli che imperversano solo in Italia, naturalmente. Però da noi questo percorso è come se fosse stato enfatizzato. Siamo i più teledipendenti d’Europa; sogniamo i modelli proposti dalle fiction e dalle pubblicità, guardiamo dal buco della serratura i grandi fratelli e ci sorbiamo tutte le telerisse. Non solo i mezzi scorretti non sono scoraggiati ma vengono addirittura incentivati. Viene incoraggiata l’evasione e l’elusione, varati decreti mille proroghe, la furbizia elevata a rango di virtù. E certamente la cultura berlusconiana non è stata passiva in tutto questo. “Silvio hai spaccato un paese – scrive Gramellini nel suo Blog – abbassato l’asticella del buongusto, desertificato i cervelli di due generazioni di telespettatori, abolito il senso di autorità e quello dello Stato (già scarsi anche prima di te), sdoganato un esercito di fascisti, razzisti, squinzie e buzzurri. Soprattutto hai sparato una quantità inverosimile di panzane”. Con la sua solita ironia, Gramellini sottolinea i danni soprattutto culturali attribuiti al suo bersaglio arcoriano, stavolta glissando su quelli morali che sono anche più gravi. Ovviamente quest’ondata di melma non può non lasciare conseguenze; non può archiviarsi con il tramonto di Berlusconi, così, come si chiudono le pagine di un libro. Lo stesso mondo cattolico, quella parte che lo ha appoggiato, non può crearsi una verginità con poche parole, tardive e sconnesse. Lasciamo perdere la Curia che per il potere e il denaro è sempre disponibile a prostituirsi con i re di tutta la terra (Apocalisse 18, 3). A “contestualizzare”. Ma le associazioni cattoliche, attente ai valori cristiani? Non c’è un po’ d’ipocrisia in quella preoccupazione per la presenza di Berlusconi al Family Day dopo l’emersione delle “serate eleganti”? “Non è sempre lo stesso Berlusconi?: quello che cancellò il falso in bilancio, che si impadronì con vari imbrogli di case editrici e televisioni, che assumeva come stalliere un rinomato mafioso, che abita in una villa comprata per quattro soldi attraverso i raggiri dell’avvocato Previti?… che costringe i giovani a vivere senza un’idea di futuro”, si chiede Anita Sonego.

Il plutocrate al potere che con i suoi denari può fare e disfare tutto, non solo nell’ambito della sua sfera privata ma nel pieno della sua pubblica funzione, inaugura e propone il più infimo livello etico che è quello della quantità, giusto agli antipodi della qualità. Il suo non è relativismo etico perché questo almeno risponde a un codice morale, sia pure soggettivo. È persino peggio dell’etica della circostanza, quella che giustifica qualsiasi mezzo per conseguire qualsiasi fine: cosa può esserci di più infimo? Eppure c’è: è l’etica della quantità. Quella che all’etica della circostanza associa la potenza di fuoco in senso corruttivo dei propri mezzi, soprattutto finanziari. Quella convinta di poter comprare tutto: purché si abbia abbastanza denaro. Giudici, parlamentari, donne, un’intera nazione, secondo il principio che “non c’è comandamento che il denaro non possa violare, nessuna fortezza che il denaro non possa espugnare” (Cicerone). “Forse per la prima volta nella storia, – afferma lo psichiatra Vittorino Andreoli – il denaro è diventata la misura, non solo per valutare gli oggetti, ma è diventata anche la misura per l’uomo. L’uomo è stato ridotto a denaro. È fuori dubbio che il denaro ha corrotto l’etica, ha corrotto la morale. Il principio fondamentale dell’etica è che alcune cose bisogna farle sempre e altre non bisogna farle mai. Oggi questo principio non vale… Per cui tutto si può fare a seconda del denaro che si ha e quindi in rapporto solo alla quantità di denaro che si può usare per cambiare comportamenti, per corrompere, appunto, l’etica. Questa è la cosiddetta etica della quantità. Ci sono persone che rifiutano certi comportamenti, quindi resistono a certi livelli di corruzione ma se si alza il prezzo finiscono per modificare anch’essi il costume, perdere la coerenza. Quindi questa è una società che è guidata esclusivamente dal denaro”. La “radice di tutti i mali” quando “lo si desidera grandemente”, secondo l’apostolo Paolo.

Certo quando Berlusconi è entrato in politica, l’Italia era già una nazione corrotta. Ma il suo modello di vita e la sua azione politica hanno esasperato la situazione. Solo il futuro potrà indicarci quanto la sua influenza sia stata perniciosa per la nostra comunità. Comunque sia ci troviamo di fronte a un quadro desolante: ormai le relazioni interpersonali rispondono quasi esclusivamente al profitto e al tornaconto personale. I compensi di tassisti, ristoratori, artigiani, commercianti, avvocati, persino dei medici, sono da strozzo. È vero che molti possono permettersi di pagarli, che i ristoranti e gli aerei sono sempre pieni, ma è il benessere di una minoranza che si è arricchita a spese dei più. L’intera classe media, quella che vive di stipendio, s’è impoverita. I giovani non riescono a entrare nel mercato del lavoro, a costruirsi un futuro; e la legislazione del lavoro voluta dal governo uscente favorisce chi li sfrutta. Vengono addirittura definiti “la feccia dell’Italia”. Chi è sazio non può capire il dramma di chi non arriva alla fine del mese e non vede prospettiva. Siamo in uno scenario da Basso Impero ma sembriamo non accorgercene. Il sociologo Ralf Dahrendorf, da poco scomparso, sosteneva che la povertà e la disoccupazione minacciano la stessa struttura portante di questa società. Infatti, mentre i parvenu riempiono i ristoranti, per quale motivo gli esclusi dovrebbero conservare il “senso di appartenenza”? Perché dovrebbero rispettare le leggi e i valori di una società che li tiene fuori? Questa degenerazione della libertà secondo Dahrendorf è l’anomia dei nostri giorni.

Ecco quindi cosa è successo. Abbiamo parlato di un popolo né onesto né libero (per riferirci alla pagina di diario della Morante). Un popolo che quasi novant’anni fa si consegnò a un “uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto” in quanto “perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo”. Abbiamo accennato alle dinamiche psicologiche e sociologiche che legano tra loro un popolo e un leader populista, alle premesse necessarie perché essi si scelgano. Abbiamo riflettuto sul fatto che il despota può conquistare il potere e mantenerlo solo se una maggioranza condivide i suoi stessi valori o, comunque, non ne sia offesa. Anche se è vero che nell’ascesa del leader populista v’è sempre una componente d’inganno e di seduzione, è anche vero che il consenso si crea solo se c’è una base comune d’interessi, se c’è un clima di complicità, se insieme non ci si identifica più in un sistema etico e nella carta costituzionale che ad esso fa riferimento. Il palazzinaro Silvio Berlusconi, anch’egli “uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto” (parole scritte in tempi non sospetti) ha solo colto l’esprit del medesimo popolo e ne ha tratto vantaggio. In che senso, allora, il berlusconismo sovrasta il suo fondatore? Questo tema l’abbiamo toccato alla fine della nostra riflessione. Il fatto è che esso manipola intuitivamente meccanismi del consenso che rispondono a logiche potenti e primordiali d’ordine psicologico, culturale e morale; assecondandole anziché contrastarle e rivelandosi così una formidabile macchina corruttiva. Un popolo già di suo non immacolato che si sceglie come leader un uomo corrotto e lo lascia legiferare, e consente che esso metta le mani e s’infiltri nei delicati meccanismi istituzionali, che percoli giù giù nella piramide politico-amministrativa fino ai livelli più bassi e diffusi, che adoperi i media come megafono per propagandare il proprio modello etico, quel popolo pone lui e il suo sistema a migliore esempio a cui ispirarsi, e così ancor più rapidamente la società si corrompe, accelerando l’avvitamento verso il baratro.

Rimane ancora, prima di concludere, rispondere alla domanda: cosa succederà adesso? Alla fine della nostra analisi, sono comprensibili i timori espressi dagli osservatori esterni al nostro paese che gli italiani ricadano nelle mani di un nuovo leader populista. A causa del suo retaggio culturale, purtroppo questa sembra la sua condanna. La libertà è un bene importante ma lo è anche la sicurezza, e quando questa fa il paio con il tornaconto, allora il destino d’un popolo è segnato. Perché la sicurezza nell’impunità e nel privilegio può essere offerta solo al di fuori delle regole democratiche. Ricordiamo le parole della Morante: “Il popolo italiano è cosiffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo tornaconto”. Grazie al cielo non tutti gli italiani sottostanno a questa mentalità. Molti sono gli onesti che hanno il senso della giustizia e del bene comune, a prescindere dalle formazioni politiche, e i sussulti di questi giorni ne sono la prova. Ma non facciamoci troppe illusioni perché essi non sono la maggioranza, e come diceva quel lettore, “il più grande difetto della democrazia è che il voto di due imbecilli vale il doppio di quello di un intelligente”. Gli attori di questa vicenda, come delle precedenti, hanno poco di serio e come in una sorta di coazione a ripetere riproducono sempre la medesima rappresentazione, essa però sì drammatica (e quindi ben più seria dei suoi attori) perché costringe le persone dabbene a condividere e a subire un destino di cui farebbero volentieri a meno. “La situazione politica in Italia è grave ma non è seria”, scriveva Ennio Flaiano nel 1956. Non si riferiva ad una situazione contingente perché con un altro dei suoi pungenti aforismi affermò sfiduciato: “Gli italiani sono irrimediabilmente fatti per la dittatura”.

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